giovedì 13 dicembre 2007

SULL'ENCICLICA "SPE SALVI" DI PAPA BENEDETTO XVI

Cara Settimana,
leggendo la seconda enciclica di Benedetto XVI pubblicata nei giorni scorsi, mi sembra che il papa si muova tra la certezza della dottrina e le sfide concrete della storia della civilizzazione.
In questo paradosso rimane difficile un pronostico sull’impatto sociopolitico (e anche ecclesiale) dell’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, la seconda del suo pontificato. A questo proposito mi sorge un interrogativo: si tratta solo di una dotta (e ripetitiva) dissertazione sulle sorti della speranza cristiana in un mondo contemporaneo che volta le spalle alla trascendenza, oppure di un tentativo di mettersi in rapporto con esso partendo dalla ricerca di risposte alle questioni più gravi sulla giustizia, la sofferenza, la vita dopo la morte?
Le reazioni dell’opinione pubblica, anche a livello internazionale, oscillano tra questi due poli e ciò conferma che non è agevole entrare nella mente e nel metodo del magistero di Benedetto XVI. Dove infatti le encicliche dei predecessori si agganciavano ad un fatto, ad una situazione, ad un problema e ad esso rapportavano Vangelo e dottrina delle chiesa, spesso confermando e talora innovando, papa Ratzinger si attiene ad un criterio univoco di rigore espositivo non necessariamente agganciato (almeno in apparenza) al vissuto contemporaneo.
Anche per questo è possibile leggere a Madrid (“El Pais”) che il papa «non propone una teocrazia nella forma ma nella sostanza» e che i suoi concetti recuperano “l’integrismo preconciliare”, mentre a Parigi (“Le Monde”) ammonisce sul rischio di interpretare quel testo come «l’ennesimo attacco di un papa al progresso, la scienza, l’ateismo», ignorando la logica propositiva che esso contiene e che ruota attorno ad un enunciato fondamentale redatto con una formula davvero essenziale: «L'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza». L’uomo come individuo e la società degli uomini nel suo insieme.

Quali segni dei tempi? È un «argumento… del arsenal del integrismo decimononico», come sentenzia “El Pais”, o c’è un’altra prospettiva? Di certo la Spe salvi, che non contiene richiami espliciti al concilio, si distanzia, nel suo procedimento logico, dalla costituzione pastorale Gaudium et spes che identificava il sentire degli uomini d’oggi – “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” – con quelle dei discepoli di Cristo, sicché «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». In quel contesto alla chiesa veniva chiesto di sforzarsi di «conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole, spesso drammatiche».
Era il criterio induttivo insito nella lettura dei “segni dei tempi”, rispetto al quale, dal concilio in poi, si è sviluppata una densa critica nel timore che la sociologia potesse prendere il sopravvento sulla dottrina e si giungesse a giustificare tutte le tendenze di ogni momento storico, con gli inevitabili esiti del relativismo etico.
Un rischio al quale si può far fronte – come ben si trova nel Catechismo della chiesa cattolica – se il tema è declinato sul modulo evangelico delle beatitudini, che «elevano la nostra speranza verso il cielo come verso la nuova terra promessa» e «ne tracciano il cammino attraverso le prove che attendono i discepoli di Gesù». Parametri assai poco morbidi posti a misura della coerenza dei credenti.
In realtà, con questa enciclica sulla speranza Benedetto XVI mostra di voler sviluppare il ragionamento teologico-sistematico iniziato con la Deus caritas est. È infatti la fede in un Dio che è carità a conferire significato, consistenza e verità ad ogni autentica speranza umana. Mantenendosi a questo livello, che oltrepassa l’analisi storico-politica, il testo ricapitola, spesso in modo affascinante e con dovizia di riferimenti biblici, patristici e filosofici – oltre che con evocazioni esemplari – la dottrina della speranza cristiana.

Da Bacone in poi… L’uomo è descritto come un grande coltivatore di attese, da quelle minori a quelle maggiori; ma resta sempre inappagato perché «ha bisogno di una speranza che vada oltre» e perché «può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere». In tale diuturna ricerca è intervenuta una rottura da quando l’umanità ha potuto progressivamente dotarsi di risorse e di strumenti sempre più efficaci di dominio sulla natura.
Seguendo il messaggio del filosofo Bacone, ciò li ha indotti a rimpiazzare lo scenario biblico del “regno di Dio” con quello di un “regno dell’uomo”, imperniato attorno ad un progresso a sua volta centrato su una visione autosufficiente di “ragione e libertà”.
Illuminismo e marxismo sono indicati dal papa come le “icone esemplificative” (ma certo non esclusive) di questa deriva illusoriamente umanistica: il primo con la pretesa kantiana di soppiantare la “fede ecclesiastica” con una “fede religiosa” derivata dalla sola ragione; l’altro con l’errore di ritenere che il cambiamento sociale delle strutture avrebbe, da solo, eliminato le cause dell’ingiustizia e, in qualche modo, pacificato le relazioni civili.
La critica investe l’intero tempo moderno che ha creduto alla fattibilità di un mondo perfetto grazie alle conoscenze della scienza e ad una “politica scientificamente fondata”.
Anche una certa visione individualistica della ricerca della felicità viene imputata, in modo autocritico, ad una concezione cristiana, lungamente e largamente alimentata, che ha badato più alla salvezza dei singoli che alla necessità di occuparsi del “noi” comunitario, come pure prescrive il comandamento della carità. Un accenno quest’ultimo che vorrebbe essere esplicitato anche nel confronto di alcune tendenze dottrinali esistenti in ambito cattolico che fanno concessioni sempre più ampie alla funzione… “salvifica” del mercato e dei suoi meccanismi automatici, come a suggello del trionfo definitivo del capitalismo sulle ideologie che lo hanno ostacolato nel secolo scorso.
Sarà forse uno dei temi della annunciata enciclica sociale di papa Benedetto XVI?

Quel Dio dal volto umano. Le argomentazioni della Spe salvi portano a concludere che le speranze che ogni giorno ci mantengono in cammino non bastano se viene meno la «grande speranza che deve superare tutto il resto» e che «può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere», a confutazione di un’accusa tradizionale, che non si tratta di un qualsiasi dio, ma di «quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme», il cui regno non è un immaginario aldilà di salvezza ma «è presente là dove egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge».
Attorno a questo nucleo essenziale ruota una galassia di spunti, di riferimenti e di esemplificazioni che compongono una vera rapsodia della speranza cristiana, che rifiuta con decisione l’argomento usato per rifiutarla: l’esistenza della morte, della sofferenza, della malattia e della violenza sopraffattrice.
L’ateismo non è che un “moralismo”: come protesta contro «un mondo nel quale esiste una tale quantità di ingiustizie, di sofferenze… e di cinismo del potere» e che per questo non può essere «l’opera di un Dio buono». Viceversa, se si coniuga la speranza con l’opera di un Dio che ama l’uomo, lo stesso “giudizio finale” perde la sua immagine “terrificante” e si presenta come l’“immagine decisiva della speranza”.

Se il mondo aiuta la chiesa. Letta l’enciclica, e scontate le polemiche, vale ora la pena di indugiare su un aspetto che si presenta ormai come una costante consolidata del magistero di papa Ratzinger.
Nel suo magistero, egli è portato a confrontare il cristianesimo con le “essenze” delle “entità altre”: religioni, dottrine e ideologie. C’è da chiedersi se in tale tendenza di comparazione necessariamente astratta non sia insita l’incognita di appiattire il messaggio evangelico sulla categoria degli “ismi” dell’arena intellettuale, con esiti inevitabili di inconciliabilità se non di scontro. Viceversa, l’esperienza storica permette di constatare come, incarnandosi nelle vicende umane, anche le teorie più rigide e ed esclusive siano state costrette a modularsi sul denominatore della tolleranza, della convivenza e del reciproco riconoscimento.
Si tratta di un fenomeno che ha portato ciascuno ad apprendere qualcosa dall’altro e a donargli qualcosa, in un meccanismo di reciprocità che, in ultima analisi, è la cifra più affidabile del processo di civilizzazione. È da qui che può venire quell’aiuto alla chiesa da parte del mondo contemporaneo di cui parlava il concilio Vaticano II.
Una più puntuale cognizione del valore dei movimenti storici consentirebbe tra l’altro di verificare – come suggerisce Edgar Morin – che «il messaggio di fraternità delle religioni si è trovato laicizzato e indossato dalla rivoluzione francese, poi amplificato e universalizzato dal socialismo e che la fraternità e la compassione sono state di continuo smentite dalle azioni commesse in nome di queste religioni e in nome del socialismo, ma esse rimangono lo strato sottostante dal quale possiamo scegliere le nostre finalità».
Impastandosi nelle vicende della storia, dottrine e religioni non restano mai allo stato puro ma si influenzano reciprocamente, si modificano e si evolvono nella prassi. Accompagnando al confronto delle dottrine una più attenta percezione della storia dell’umanità – come del resto invitava a fare il concilio – si ottiene una decantazione critica che identifica un patrimonio e un tessuto comune di umanità, a partire dal quale cooperare all’offerta di “ragioni di vita e di speranza”. Non i cristiani da soli per gli altri, ma “con” tutti e “per” tutti.

Domenico Rosati

UN PAESE "SENZA SOCIETÀ" E UNA CHIESA "SENZA COMUNITÀ"?

Cara Settimana,
stiamo diventando un paese “senza società” e una chiesa “senza comunità”. Questa è la verità. Il modello di parrocchia che tende ad imporsi è ancora quello della “stazione di servizi”. La minoranza dei praticanti tende a vivere una dinamica devozionale e morale, solo nell’osservanza del “dovere cristiano” della messa domenicale. Ma la chiesa non dovrebbe avere nel suo “dna” il tema generatore “comunitario”? Siamo invitati a prendere coscienza ancora di più di essere “popolo di Dio”, per essere segno della comunità degli “ultimi tempi”. La religione è, per se stessa, un fatto comunitario, un evento che crea relazioni, genera legami e origina vincoli.
La stessa parola “chiesa” ha perso ogni contatto con la verità che il termine significava: nel gergo comune oggi indica “un dove”, un “luogo” o un “edificio”, uno “spazio geometrico”. Ma di per sé significa precisamente “gente strappata alla solitudine e messa insieme da Dio”.
La formula “città senza società” è la chiave dell’analisi e della diagnosi che mi è capitato di fare della situazione socio-culturale e socio-pastorale della diocesi brasiliana di San Paolo nel 2006. Se non si reagisce a questo problema, la chiesa può diventare una realtà decorativa.
Per sé lo Spirito Santo ha già fatto la sua mossa decisiva 40 anni fa con il Vaticano II (1962-1965) e ha messo al centro della teologia, della spiritualità e della pastorale non più la concezione e l’ispirazione di un Dio onnipotente ed eterno quasi solo e solitario che si rifletteva nel ruolo egemone del clero, ma la Trinità! Da questo cambiamento si può affermare che tutto resta uguale e, allo stesso tempo, tutto cambia; anzi, tutto resta uguale solo se tutto cambia! Continuità e novità e non conservazione o rottura vuol dire partecipare alla “Tradizione vivente” della chiesa.
Quindi, alla fonte e all’origine di tutto c’è il “noi divino”. In questo modo siamo chiamati a diventare il “noi ecclesiale”, dove tutti hanno un nome, un posto, un ruolo e una voce. Tutti soggetti e tutti autori, nello Spirito di Gesù, della vita e della missione della comunità cristiana. Questo rivoluziona l’immagine e la figura di tutti: quella dei laici, dei religiosi e dei preti. Certo quarant’anni di postconcilio – pur essendo un tempo biblico e simbolico completo e unitario – sono ben poca cosa per mettere mano alla creazione di una nuova immagine comunitaria di chiesa. È in questione il passaggio dal modello di “chiesa-società” a quello di “chiesa-comunità”. Ma è pur sempre qui che occorre tornare ed è da qui che occorre ripartire.
La perdita delle piazze, la crisi di società e dei valori… Tutto giusto, ma a nulla serve un’operazione nostalgica. Qualcuno dice: “Come si stava bene una volta...”. Chi si piange addosso, non risolve i problemi, ma li aumenta e, soprattutto, li aggrava. Con la retorica degli “amarcord” non si crea società, ma solo deformazioni e omissioni. La vecchia socialità dell’epoca rurale, con le sue luci e le sue ombre, è finita. Oggi sta nascendo a fatica, e nella disattenzione dei più, la “socialità globale”. I terzomondiali, che sono gli unici a fare ancora un uso simbolico delle piazza, come facevamo noi fino a 20-30 anni fa, indicano un germe di nuova socialità che sia allo stesso tempo globale e locale e di una nuova cittadinanza dei diritti umani universali.
Non si può tornare indietro dove ormai non c’è più niente. Occorre osare di più e andare avanti. Le promesse e le potenzialità vanno però tradotte in progetti, in laboratori, in sperimentazioni e in gemellaggi attivi. Non è bene abbandonare il paese alla deriva, lasciando che crescano – in modo selvaggio – solo due componenti: lavoro-impresa e affetti-famiglia. È la tirannia “economicistica”: essa aggredisce e snatura anche il privato e il personale della coppia e della famiglia. Non possiamo diventare noi stessi se rinunciamo a diventare in modo nuovo paese, comunità, società e città.
La funzione della chiesa è quella di caricarsi sulle spalle questa eclissi di socialità globale e di cittadinanza attiva, di relazioni e di interazioni multiculturali, per favorire nuovi processi generativi. Ecco la risorsa multietnica dei residui praticanti della nostra piazza! Se nel passato la chiesa ha svolto una funzione di “supplenza solida” come “chiesa-società”, con l’egemonia del potere ecclesiastico, oggi essa è chiamata a svolgere una funzione di “supplenza leggera” come chiesa-comunità, con l’egemonia della spiritualità, una spiritualità di comunione, che offre spazio all’informazione, all’ascolto, al dialogo e alla comunicazione. Una spiritualità che fa della chiesa la “casa” e la “scuola” di relazioni gratuite e creative, nell’uguaglianza e nella reciprocità. Una spiritualità realistica che fa delle dinamiche di riconciliazione e di offerta di perdono la sua palestra abituale: altrimenti tutto muore prima di iniziare.
Ad esempio, in un’ora di incontro ci possono capitare alcuni equivoci. Essi possono paralizzare l’incontro se non chiuderlo per sempre, come anche rilanciare la possibilità a parlarsi e ad ascoltarsi. A nessuno tutto questo è connaturale: va conquistato umilmente, con lunghi e generosi apprendimenti. Ci dobbiamo accogliere e abbracciare con il “bacio della pace” non sette volte, ma settanta volte sette! Abbiamo bisogno di una spiritualità organica che ci educhi gradualmente a pensare, a decidere, ad agire e a valutare insieme la vita e l’azione pastorale. Con metodi e pedagogie adeguate ai laici, che cominciano sempre più spesso a prendere parola come soggetti di chiesa. E adatte anche – perché no? – a noi preti che non siamo i soli e gli unici ad avere la parola decisiva. Si tratta di tener conto della diversità dei ruoli e dell’inevitabile distanza tra le competenze del prete e quelle dei laici.
Si sta profilando uno scenario nuovo che risulta molto più esaltante di quello tramontato del cristianesimo costantiniano e tridentino. Con i riferimenti e le luci che lo Spirito ha offerto grazie al Vaticano II, possiamo dedicarci con rinnovato entusiasmo a portare avanti il rinnovamento della chiesa, sposando il tema generatore della comunione. Potremo così diventare più esperti in comunione, mettendo a frutto il “genio trinitario” del cristianesimo delle origini e delle fonti, dal momento che «le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della chiesa, affinché tutti gli uomini e donne, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo» (LG 1).

don Gino Moro
Fondazione Mondo Migliore Onlus

PER VIVERE LO SPIRITO DEL VATICANO II

Direttore carissimo,
innanzitutto un grazie di cuore perché Settimana mi ha sempre fatto buona compagnia per tutto il tempo del mio sacerdozio, soprattutto da quando, partecipando ad un corso di esercizi spirituali predicati dal card. Pellegrino presso il santuario di Sant'Ignazio a Pessinetto (TO), l'eminente predicatore ci ha detto: «L'abbonarsi a Settimana del clero per un prete, vuol dire rimanere sufficientemente aggiornato».
Permettimi, ora, di dir la mia sul motu proprio di Benedetto XVI. Sono un prete oramai vicino al traguardo finale, ho avuto la fortuna di vivere tutta la straordinaria evoluzione nella chiesa “dal prima al dopo” e il veramente provvidenziale concilio. Penso ora, alla mia età, a quanto sarà costato ai preti anziani dover osservare tutte le minuziose rubriche della liturgia pre-conciliare, soprattutto con quelle frequenti genuflessioni doppie e semplici... Meno male che il buon papa Giovanni XXIII si è lasciato guidare dallo Spirito Santo e ha avuto il coraggio di aprire un concilio per un necessario aggiornamento nella vita della chiesa.
Purtroppo noi preti, presi dalla fretta di introdurre le modifiche, non ne abbiamo spiegato a sufficienza il significato, limitandoci a dire: «Prima si faceva così, ora invece si fa in questo modo!». L'auspicio, quindi, dei padri conciliari non è stato raggiunto, per cui noi abbiamo avuto dei cristiani che hanno visto in queste modifiche più un tentativo di "abbassare" troppo il Signore, mancandogli di rispetto, che di rendere noi più partecipi e consapevoli.
Che dire ora del motu proprio? L'emerito vescovo di Ivrea, scrivendo su Settimana a proposito del funerale di Welby e di Pavarotti, ha avanzato un tipo di valutazione che mi sembrerebbe applicabile anche al motu proprio. Egli dice: Giovanni XXIII ha voluto il concilio non come "dogmatico", bensì "pastorale". Ebbene, il tipo di chiesa che ha escluso Welby dal funerale religioso... risponde all'atteggiamento "dogmatico"..., mentre la chiesa che ha concesso il funerale religioso a Pavarotti ha scelto la dimensione "pastorale". Non so se questo sdoppiamento sia possibile.
Papa Benedetto XVI è pienamente consapevole di avere una missione di salvare tutte le anime "ricapitolandole" in Cristo, quindi ha riunito le due dimensioni, ambedue valide – almeno così spero – per salvare, creando comunione tra i nostalgici del latino (della messa pre-conciliare) e quelli che preferiscono la lingua parlata.
Personalmente sono convinto che se noi preti ci sforziamo di attuare il concilio, non dando nulla per scontato, molti cristiani, soprattutto giovani, si convinceranno sempre più del suo innegabile valore in ordine a farci vivere, nel quotidiano, la nostra fede e il nostro battesimo.
Direttore, le ho scritto, soprattutto, perché spero che gli operatori pastorali laici che leggono la nostra Settimana possano essere aiutati a pensare che sempre, quindi anche questa volta, il papa parla e insegna per "mantenere" la comunione tra i fedeli, non per creare divisioni.
Con l'augurio di ogni bene.

don Marco, Segugnago (LO)

lunedì 3 dicembre 2007

UN PARROCO, UN VISITATORE E OTTO COMUNITÀ NEOCATECUMENALI

Cara Settimana,
chiedo gentilmente, se possibile, un parere d'un vostro esperto a riguardo della lettera sottoesposta e dei relativi problemi in particolare. L'autore della lettera è il visitatore straordinario che visita, a nome del superiore generale, la comunità religiosa pastoralmente responsabile della parrocchia. La lettera (sono state tolte le indicazioni di nomi, luoghi, diocesi, ordine-congregazione) è indirizzata al parroco della parrocchia interessata, ai responsabili delle comunità del Cammino neocatecumenale esistenti in parrocchia, e – per conoscenza – all'ordinario diocesano e al superiore provinciale della congregazione-ordine interessati.

«Carissimi fratelli e sorelle,
vi porgo un cordiale saluto nella pace di Cristo risorto... Dal... al... ho fatto la visita canonica straordinaria, a nome del superiore generale... Durante la visita, ho dedicato tempo all'ascolto delle persone e alla visione delle situazioni. Ho parlato con la comunità religiosa, con i responsabili delle comunità del Cammino, con i rappresentanti dei gruppi parrocchiali. Ho incontrato s.e. mons. vescovo, il vicario episcopale per la pastorale della città, il superiore provinciale. Ho letto la documentazione che si trova nell'archivio della comunità religiosa riguardante le visite canoniche...; tra l'altro, ho notato come alcune delle indicazioni offerte a riguardo del "Cammino" siano state disattese. Ho meditato sugli ultimi pronunciamenti del magistero del papa e dei vescovi.
A fine della visita, così scrivevo: "Nella comunità parrocchiale ci sono otto comunità del Cammino neocatecumenale. In questo momento c'è tensione soprattutto tra la comunità religiosa e tali comunità". Inoltre aggiungevo: "La comunità religiosa continui con la sua proposta, relativa al nostro carisma, di animazione della parrocchia, secondo i nostri documenti ufficiali; le linee di pastorale per la parrocchia vengono date dalla comunità religiosa e dal consiglio pastorale". Infine, parlavo di una "lettera di orientamento", che avrei fatto giungere, dopo ulteriori approfondimenti, alla comunità religiosa e ai responsabili delle comunità neocatecumenali.
Dopo discernimento e preghiera, sono giunto a queste conclusioni, che vi indico in vista di un cammino di comunione.
"Al di sopra di tutto vi sia la carità". Ciò che si deve salvaguardare è la carità, ciò che si deve edificare è la comunità, ciò che si deve vivere è la comunione.
Nella situazione dell'attuale tensione e in vista dell'edificazione della comunità parrocchiale, vi indico i seguenti passi da realizzare progressivamente. Essi vi offrono concreti cammini di comunione.
1. Per favorire la crescita armonica della comunità parrocchiale e del nostro carisma, constato che la presenza di otto "comunità del Cammino" sia troppo numerosa. Invito perciò i responsabili delle comunità del Cammino neocatecumenale a trovare soluzioni alternative, come la fusione di alcune comunità o il loro trasferimento in altre sedi, in modo che nella parrocchia non vi siano più di tre comunità. Inoltre, invito i responsabili a non iniziare altre catechesi; se sorgerà l'esigenza di altre catechesi, queste non siano svolte nella parrocchia.
2. Per realizzare la comunione visibile e per evitare sovrapposizione di orario, le celebrazioni eucaristiche del sabato sera per le "comunità del Cammino" presenti in parrocchia, il sabato sera negli ambienti parrocchiali non ci saranno più di tre celebrazioni eucaristiche. In particolare poi nel momento culminante dell'anno liturgico, a partire dall'anno 2008 nella chiesa parrocchiale o negli ambienti dell'Oratorio[1] non sia tenuta la celebrazione della veglia pasquale.
3. Per concretizzare l'indicazione della lettera della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti del 1° dicembre 2005, indirizzata ai responsabili del Cammino, in cui si chiede che "almeno una domenica al mese le comunità del Cammino neocatecumenale devono partecipare alla santa messa della comunità parrocchiale", chiedo che una volta al mese, al sabato sera, in tutte le sale dell'Oratorio non vi sia nessuna celebrazione eucaristica.
4. Per potenziare la comunità pastorale e l'espressione del nostro carisma nella parrocchia, che è stata affidata dal vescovo alla congregazione, si trovino orientamenti convergenti all'interno del consiglio pastorale e si sviluppi una proposta esplicitamente nostra di animazione della parrocchia, secondo i nostri documenti ufficiali.
Sono consapevole che la via proposta è ardua; i passi non sono facili da realizzare. "È la carità di Cristo che mi spinge". L'edificazione della comunità parrocchiale chiede scelte coraggiose. Il Cammino neocatecumenale sta facendo un grande bene nella chiesa, creando però alcune tensioni, soprattutto nell'inserimento pastorale parrocchiale (Benedetto XVI, incontro con i parroci e il clero della diocesi di Roma, 22 febbraio 2007). In questi anni scorsi, non si è riflettuto sufficientemente da parte della nostra comunità e della comunità parrocchiale su che cosa significhi che una parrocchia sia animata da un carisma di vita consacrata.
Lo Spirito Santo, che è Spirito di verità e di amore, vi suggerirà come realizzare questi orientamenti. Lascio al superiore provinciale, in dialogo con il vescovo, di vederne i tempi di concretizzazione fin dall'inizio del nuovo anno pastorale. La Vergine Maria...
Con sincera stima e affetto fraterno».

Domando gentilmente (e ringrazio delle risposte eventuali):
1. Può il superiore generale d'un ordine-congregazione giungere a queste conclusioni, senza previo e pieno accordo col vescovo diocesano? Senza coinvolgere direttamente i fedeli laici della parrocchia (con i componenti delle comunità del Cammino)?
2. Il Cammino è stato chiamato in parrocchia 30 anni fa (e seguito in questi anni) dai parroci (e sacerdoti della comunità religiosa) della stessa congregazione-ordine che si sono succeduti. Hanno sbagliato tutto?

lettera firmata

La risposta alla seconda domanda è semplice: il Cammino è «un itinerario di formazione cattolica, valida per la società e per i tempi odierni» (St 1). Dunque, non si sono persi trent’anni.
Invece, la risposta alla prima domanda è più difficile, poiché manca la conoscenza del contenzioso e siamo di fronte a casi-limite per i quali non si possono che ribadire le leggi, la cui osservanza è la misura dell’agire e avvia alla soluzione dei conflitti.
Il caso è comunque complesso poiché richiede di armonizzare più soggetti:
1) il vescovo e la sua autorità pastorale, cui i religiosi sono sottoposti in ciò che riguarda «la cura delle anime, l’esercizio pubblico del culto divino e le altre opere di apostolato» (can. 678,1 e 681,1);
2) il Cammino, con uno Statuto approvato dalla Santa Sede;
3) l’ordinario religioso (il visitatore) che, a differenza del vescovo, è “ordinario” solo per i confratelli (can. 134,1), i quali nell’apostolato «sono soggetti anche ai propri superiori e devono mantenersi fedeli alla disciplina dell’istituto» (can. 678,2);
4) la comunità religiosa che collabora all’apostolato parrocchiale (can. 519) ma che, come persona giuridica, non è parroco (can. 520,1);
5) il parroco, che esercita l’azione pastorale «sotto l’autorità del vescovo diocesano» (can. 519) e che è ben distinto dalla comunità religiosa, prospettiva mal digerita da molti religiosi che continuano a sognare la parrocchia “affidata alla comunità”, ma così non è.
Tenendo conto di quanto sopra, alla domanda: «Poteva il visitatore scrivere quello che ha scritto?», la risposta è: «Sì, lo poteva». E per tre ragioni, poiché il visitatore:
a) rispetta lo Statuto del Cammino quanto all’eucaristia in comunità e alle non determinazioni circa la veglia pasquale (St 13,3; 12,3 e Lettera del 1.12.2005, n. 1);
b) rispetta i suoi limiti di essere “non ordinario” verso i fedeli del Cammino, ai quali, dopo aver parlato con il vescovo, si rivolge non dando ordini, ma usando i termini “invito / chiedo” (qui non siamo di fronte a una lettera d’amore e ogni parola va assunta in senso tecnico);
c) interviene come “ordinario” presso i religiosi spronandoli a far emergere il carisma proprio e, dopo aver parlato con il vescovo (è la reciproca intesa di cui al can. 678,3), delimita un loro apostolato che nella parrocchia non risulta essere necessario né in senso assoluto né in quanto richiesto dal vescovo.
Queste le leggi e le dinamiche, ma è chiaro che in se stesse sono vuote e il risolutivo è una valutazione del Cammino e dell’apostolato cristiano e parrocchiale.
Comunque, a mio fallibile parere, c’è anche qualche ombra. Mentre emerge la comunità dei religiosi, è troppo assente la funzione del parroco: invece, è a lui che è affidata la parrocchia ed è lui che deve prendere o eseguire delle decisioni – tra l’altro il Cammino «comincia nella parrocchia su invito del parroco» (St 9) –; è vero che si precisa che la lettera è indirizzata anche al parroco, ma nel testo non è molto presente.
Sarebbe anche stato auspicabile che le determinazioni del visitatore – valide per la comunità religiosa – fossero rivolte direttamente a quest’ultima (ad esempio, non accogliere più di tre comunità) con l’invito al Cammino a tenerne conto e contestualmente confermate dal vescovo, il vero “ordinario” del Cammino, con un deciso “ordino” o “dispongo”.
Infine, il visitatore dice di aver parlato con i responsabili del Cammino, mentre la domanda posta a Settimana lamenta un non coinvolgimento degli stessi: forse sono vere entrambe le asserzioni, nel senso che forse i contatti sono avvenuti prima della definizione delle misure in oggetto. Sarebbe stato auspicabile un incontro con a fronte il testo (bozza) delle misure messe a punto e prima dell’invio della lettera: è un metodo che in genere funziona e che già Sparafucile proponeva a Rigoletto per la consegna della somma in vista di uccidere il duca: «Una metà s’anticipa, il resto si dà poi».
Sia concesso concludere con una malizia del mestiere. Abbiamo scomodato due “ordinari”, uno Statuto, un parroco e una comunità religiosa. Se un altro “gruppo stabile” – come lo è il Cammino – avesse chiesto di celebrare la messa e gli altri sacramenti come al 1962, il parroco avrebbe potuto decidere tutto da solo e senza complicazioni. Siamo di fronte a una saggezza superiore, oppure si fanno figli e figliastri? (Riccardo Barile)


[1] In realtà la costruzione è sorta ed è usata come Centro parrocchiale (ndr).

DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA: DOVE SONO I LAICI?

Cara Settimana,
vorrei ringraziare per lo sforzo della rivista nello stimolare, pur nella prospettiva che le è propria, la formazione di un tipo di cittadino cristiano sempre più adulto e pensante.
In particolare, alcuni recenti articoli mi hanno sollecitato a meglio individuare alcuni punti nevralgici su cui chiedo, se possibile, una vostra attenzione. Mi riferisco agli interventi apparsi sui numeri 38/07 (Rosati: Come essere cittadini cristiani e Pizzighini: lettera pastorale dell’arcivescovo di Lecce, Ruppi dal titolo Nel solco del concilio. Un laicato più adulto), 39/07 (Dalla Zuanna: Un bene comune da costruire) e 41/07 (Valentini: Pietro Scoppola cristiano a modo suo).
Sono scritti che, proprio perché nati da sensibilità e ambiti diversi tra loro, a me pare riflettano bene una stagione “liquida” e alquanto “depressa”: un tempo delicato di stallo evidente per un cattolicesimo italiano confuso e balbettante nel prendere la parola sui temi della cittadinanza e del sociale. Dico subito che il dato che accomuna questi “articoli-finestre” di pastorale sociale mi sembra frutto di un clima culturale irrigidito e poco propenso a dare spazio e slancio a laici cristiani capaci di far fronte alla post-modernità e di rischiare nella complessità sociale.

Il primo motivo mi sembra da ricercarsi nella debolezza intrinseca alla pur nobile e doverosa operazione di recupero del concilio Vaticano II. Tale debolezza mi sembra data dal fatto che proprio i preti e i laici, che dovrebbero guidare le comunità in questa operazione di ricognizione, non hanno loro per primi assimilato da protagonisti, se non a livello astratto o di rimbalzo, le grandi intuizioni conciliari e quindi possono mostrare solo opachi modelli di una sua attuazione. Negli Atti degli apostoli vediamo che la trasmissione degli eventi di Gesù di Nazaret diventano veri e propri annunci nello Spirito, offerti da testimoni impegnati a dare la vita nella sequela: in genere, non mi sembrano esistere questi presupposti nelle attuali riflessioni che spesso si esauriscono nell’esposizione di slogan quali “chiesa tra le case degli uomini”, “anima del mondo”, “santità laicale”, “corresponsabilità”, “vocazione secolare”, “unità di fede e vita”. I battezzati, per credere, necessitano di testimoni del Cristo totale e non di divulgatori di eventi ecclesiali. Si assiste così all’utilizzazione passiva di un metodo gratificante e consolatorio di ripetizione, che fa circolare un patrimonio di idee ma che si condanna da solo alla sterilità per mancanza di vera mediazione.

Un secondo motivo di blocco del laicato credente mi pare sia frutto dell’eccesso di supplenza magisteriale in tema di dottrina sociale. Dobbiamo essere grati ai pontefici per le spinte date alla politica alta dalle grandi encicliche sui temi cruciali della convivenza, come dobbiamo valutare positivamente gli sforzi della Conferenza episcopale italiana, in questi anni, per orientare e svegliare la coscienza del popolo cristiano. Ora, però, c’è bisogno attivare una stagione popolare di evangelizzazione e di crescita dei christifideles laici nella teologia morale, con lo scopo di creare un vivaio da cui emergano giovani adulti credibili e pronti a spendersi nell’agone politico. Il protagonismo dei cattolici mi sembra si sia infilato nella logica del gruppo di pressione e degli esperti capaci di argomentare razionalmente enunciati e valori non negoziabili: un livello che rischia di avallare un volto di chiesa istituzionale invadente, perché noi laici viviamo di rendita col metodo della traduzione dei principi. I fedeli più zelanti cercano così un consenso ecclesiastico preventivo e la dottrina sociale finisce per diventare una specie di fondo perduto dal quale cercare soluzioni: una prassi che sta generando una pigrizia intellettuale proprio dei laici ai quali spetta la ricerca di soluzioni creative sulle contingenze della politica.

Un ultimo motivo di preoccupazione è, a mio avviso, l’evidente immaturità culturale delle nostre attuali comunità cristiane. In questi anni c’è stata senz’altro un’evoluzione delle offerte formative, ma per lo più con logiche auto-referenziali e di corto respiro. Non ha certo aiutato l’evoluzione culturale dei credenti, soprattutto i più giovani, quell’improvvido attestarsi, anche di gruppi e movimenti, su un vero e proprio “bipolarismo” dei valori (il partito dei cattolici per la vita contro il partito dei cattolici per la pace), che finalmente si è iniziato a mettere in discussione durante la recente Settimana Sociale di Pisa.
Diversi operatori pastorali ormai intuiscono la necessità di un salto di qualità per attivare percorsi comunitari più concreti e coraggiosi (e quindi, per necessità, più conflittuali), nella direzione della formazione della coscienza socio-politica dei praticanti e al fine di rendere tutti (a iniziare dai preti!) più capaci di analisi e di discernimento.
Una cultura che si riduce all’esposizione della dottrina difficilmente imbocca la strada del metodo dell’attualizzazione, il più difficile e impegnativo. Oltre che, giustamente, impegnato a non farsi togliere il diritto di parola e a trovare spazi dove poter esprimere forte e democratica contestazione, il cittadino cristiano del futuro deve essere meglio attrezzato nelle proprie capacità di distinzione, mediazione e comprensione delle posizioni e quindi delle ipotesi praticabili in campo sociale e politico, a tutti i livelli.
Come dice il noto studioso Giorgio Campanini, il magistero sociale della chiesa «non ha bisogno di ripetitori e diffida istintivamente dei traduttori; ha bisogno di cristiani creativi che sappiano “obbedire in piedi” e assumere fino in fondo il rischio della decisione. La nuova stagione della dottrina sociale della chiesa non sarà né quella dei professori né quella dei “manovali del sociale”, ma quella dei grandi mediatori fra parola di Dio e storia dell’uomo» (La dottrina sociale della chiesa: le acquisizioni e le nuove sfide, EDB 2007, pag. 16).

Proprio sul versante di parola di Dio e lettura profetica della storia mi appare urgente suscitare nuovi luoghi in cui i semplici laici credenti si formino una competenza specifica e sappiano dire qualcosa di sensato: forse così si può uscire dal tunnel di un’esegesi biblica, e quindi di una lettura comunitaria della Bibbia, asettica e spiritualista. Mi sembra, ormai, che le persone affollino soprattutto quegli incontri in cui testimoni sanno illuminare le domande della vita con le sacre Scritture.
Mi pare, allora, un segno di debolezza che, proprio sui nodi più delicati della convivenza (inizio e fine della vita, welfare, guerra e pace, famiglia, educazione, accoglienza dello straniero, lotta alle povertà), il vangelo finisca nei nostri ambienti per essere affidato a specialisti e usato come pezza d’appoggio del dibattito sui principi-valori, mentre dovrebbe essere il grembo in cui far continuamente rinascere e crescere il sogno di Dio per un mondo più giusto e fraterno.
Il concilio Vaticano II è stata una pentecoste moderna, perché la centralità della Parola e di Gesù luce dei popoli (Dei Verbum e Lumen gentium), ha fatto rifiorire un’attenzione all’umanesimo integrale e al personalismo comunitario (Gaudium et spes).
Confesso che mi spaventa un pensiero sociale cristiano, dal linguaggio cattedratico, che finisce per attestarsi sulla difesa di interessi borghesi e neo-corporativi, remando suo malgrado nella direzione di quella antipolitica che sta corrodendo la democrazia e sta spegnendo la speranza delle generazioni più giovani. Abbiamo ricevuto per grazia i segnali indicatori che ci consentono di dirigerci verso il Regno: a noi sta il dovere di offrirli a tutte le persone di buona volontà per costruire insieme le tappe del cammino.

lettera firmata (BO)

LE DIFFICILI STRADE DELL'INTEGRAZIONE

Caro direttore,
mi permetto di scrivere queste riflessioni dopo alcuni avvenimenti che, ampiamente supportati dai mass media, hanno creato all’arme in molte persone.
È chiaro che ogni crimine, ogni delitto, ogni omicidio, è sempre un episodio sconvolgente, che fa inorridire la coscienza di ciascuno ma, quando a commettere un delitto sono dei rom, sembra che il crimine diventi particolarmente odioso e l’assassino si trasforma in un mostro esecrabile da sbattere in prima pagina.
I recenti fatti di Roma sono lì a dimostrare come ogni qualvolta succede un gesto efferato come la violenza e l’uccisione di una giovane donna indifesa, perpetrato da un cittadino rom, scateni una reazione violenta che si ripercuote su altri cittadini innocenti, colpevoli solo, in quanto rumeni, di provenire dalla stessa nazione dell’assassino.
Gli zingari, siano essi rom, sinti ecc., da secoli sono discriminati ed emarginati, la loro semplice apparizione in un qualsiasi comune o borgata delle nostre città, scatena una repulsione immediata per la fama poco onorevole che li accompagna. Nell’immaginario collettivo essi sono visti come ladri, rapitori di bambini, per non dire di peggio Ma quello che sconcerta ancora di più, è che i rom non sembrano preoccuparsi di questa nomea che si sono procurati con alcuni loro atteggiamenti ripugnanti come il furto a danno dei più deboli o il mandare i bambini ad elemosinare lungo le strade, allontanando sempre più un difficile ma non impossibile inserimento nella nostra società.
Nel passato molti governanti hanno tentato di porre soluzione al problema degli zingari attraverso delle leggi che costantemente li mettevano al bando; Hitler, unitamente agli ebrei, attuò la soluzione finale anche nei loro confronti: con teutonica obbedienza e determinazione le SS si diedero da fare per rastrellarli da tutta Europa e infilarli nelle camere a gas. La sconfitta del nazismo evitò che questo criminale disegno si compisse, e lascia l’amaro in bocca a chi oggi, visitando i vari campi di stermino, scopre che ci sono lapidi e cippi che ricordano tutte le vittime dei popoli soggiogati dal nazismo, ma stranamente non c’è nessun ricordo che faccia memoria delle migliaia di vittime del popolo zingaro.
Non è certamente facile il dialogo con chi vive ai margini della società e della legge, ma lasciare che un corpo estraneo viva perennemente senza un minimo di contatto vitale con altre persone è ancora più deleterio. In una società multietnica e multiculturale come quella che si va delineando in Europa, non si può pensare di erigere mura che separano o ghettizzano, ma dev’essere un punto centrale delle istituzioni costruire ponti che favoriscano la conoscenza e il dialogo reciproco.
La comunità cristiana, sotto questo profilo (proprio perché il mondo celtico-pagano circostante invoca “soluzioni forti” nei confronti dei rom), ha il dovere di percorrere tutte le strade che instaurino rapporti non solo di tolleranza, ma di rispetto e, perché no?, d’amicizia.
Diverso il discorso relativo rumeni. Il fatto che la Romania sia entrata a far parte dell’Unione Europea, pone i rumeni nella privilegiata condizione di potersi muovere senza nessun problema all’interno degli stati membri. In Italia essi sono la prima comunità straniera e, purtroppo, stando alle statistiche, anche la prima comunità per numero di reati.
Il fatto che il presidente rumeno si sia affrettato a venire in Italia dopo i fatti di Roma a discutere con Prodi i problemi legati alle relazioni tra i due paesi, la dice lunga su come la posta in gioco dal punto di vista economico sia altissima. Se la presenza dei rumeni in Italia ha raggiunto cifre ragguardevoli garantendo attraverso le rimesse degli emigranti entrate sostanziose al bilancio rumeno, va anche tenuto presente che sono oltre ventimila le imprese italiane operanti in Romania. Ci sono, quindi, tutte le premesse per tentare di smorzare sul nascere una pericolosa escalation razzista che sarebbe causa di crescenti disagi per tutti.
Il cammino dell’integrazione è un cammino difficile da percorrere, soprattutto tenendo conto che chi ha vissuto per anni sotto il tallone di Ceaucescu ha sviluppato un senso di rifiuto per le leggi inique che l’opprimevano, e questo ha portato ad una “forma mentis” collettiva che relativizza di molto i principi morali. Tutto ciò non per giustificare chi delinque ma per comprendere che, alla base di tutto, c’è il bisogno immenso di costruire non solo una cortese tolleranza da parte nostra, ma un cammino pedagogico di formazione delle coscienze a cui tutti sono chiamati, in modo particolare il mondo istituzionale.
Alla luce di questi fatti, possiamo dire che la presenza del male nel mondo va contrastata vivendo fino in fondo la logica del Vangelo. È il caso di ricordare che esso si basa sull’amore e non sull’odio, né tantomeno sul rifiuto dell’altro. Ricordarcene in questi tempi può contribuire a costruire una società più consona al rispetto dei diritti dell’uomo, chiunque esso sia.

Mario Bandera (NO)

giovedì 15 novembre 2007

PERCHE' DISAPPROVO L'ATTACCO AL "MOTU PROPRIO"

Carissimi di “Settimana”,
sono un sacerdote che ha superato gli 80 anni, che dopo aver esercitato la funzione di parroco per 44 anni, sono ora considerato “emerito”. Ebbene, pur avendo gli anni, nella mia ancora vivacità e interesse per tutto ciò che mi circonda, sento il dovere di stimmatizzare con codesto mio scritto l’atteggiamento del liturgista Barile, nei riguardi del motu proprio del papa e circa l’agire personale del santo padre Benedetto XVI.
Voglio sperare che Settimana pubblichi le mie osservazioni, anche se non consone al taglio odierno del settimanale (vedi per esempio la lettera pubblicata sul n. 30 dal titolo “L’obiettivo non è il latino, ma il concilio”).
Vorrei intitolare le mie osservazioni sofferte, con un titolo già abbastanza eloquente: “Un Barile di aceto contro il Santo Padre”. Il paginone da voi pubblicato su Settimana n. 31 non è altro che una feroce critica al motu proprio del santo padre e, addirittura, all’atteggiamento personale di Benedetto XVI.
Del paginone di Barile non si salvano altro che poche righe finali; giusto per non essere tacciato da aperto ribelle.
Al Barile, da presbitero anziano e rispettoso dell’autorità del pontefice, sottopongo alcune righe di Punti fermi di Von Balthasar. Le righe, anche se riferite dal Balthasar a personaggi clericali contrari al papa, per altri motivi e al tempo del concilio, ben si addicono al Barile di oggi. «I cristiani magniloquenti, per lo più sbirri clericali solleciti di menar colpi su Roma, possono studiare i propri volti sulle caricature di Bosch o di Brueghel. Non manca certamente ad essi un seguito di ammiratori, tanto sono umoristici» (pag. 174). Von Balthasar su Punti fermi sottolinea infatti la sua preoccupazione di salvaguardare i punti essenziali del cristianesimo, perché in questi tempi – scrive – si son messi in discussione molti punti essenziali come l’autorità del papa, la divinità di Cristo...: «Se la critica – dice ancora – non si basa sull’amore, non serve a guarire nessuna ferita. Il critico che non è spinto dall’amore, fa piuttosto la figura di uno che si gratta rabbiosamente la propria pelle. Gli acidi corrosivi che oggi vengono usati nel cuore delle persone ben difficilmente provengono dal laboratorio di coloro che amano Dio» (pag. 290).
Mi piace ancora citare padre Cantalamessa da La vita nella Signoria di Cristo pag. 272: «L’obbedienza a Dio non distoglie dall’obbedienza all’autorità visibile istituzionale, ma, al contrario la rinnova, la rafforza e la vivifica al punto che l’obbedienza agli uomini diventa il criterio per giudicare se c’è o meno l’obbedienza a Dio. Che fare nelle circostanze in cui ti trovi titubante? Non serve a nulla moltiplicare le rievocazioni o gli autodiscernimenti».
Cito infine – sempre per il Barile e i suoi sostenitori – un testo che reputo assai consono dal Catechismo della chiesa cattolica pag. 243 art. 892: «L’assistenza divina è inoltre data ai successori degli apostoli, quando, pur senza arrivare ad una definizione, propongono nell’esercizio ordinario, un insegnamento che riguardi la fede e i costumi. A questo insegnamento ordinario i fedeli devono aderire con religioso ossequio».
Dopo le citazioni, sottopongo a voi di Settimana un quesito, che, in questi ultimi tempi, è circolato sulla bocca di molti, di fronte a comportamenti non proprio ortodossi di alcuni ecclesiastici o appartenenti a ordini religiosi: «Ma dove sono i superiori che devono vegliare sull’ortodossia e sull’atteggiamento dei propri sottoposti? Perché questa autorità non richiama il Barile (e anche altri...) che criticano il santo padre in una maniera così brutale? A che ordine appartiene il Barile e voi di Settimana? Ma forse per il Barile l’obbedienza non è altro che una virtù che ci porta a far compiere dal superiore la nostra volontà?».
Prego infine il Signore misericordioso perché gli “appunti” rilevati dal Barile, con tanta sfrontatezza circa il motu proprio e l’azione personale del papa, non abbiano a suscitare l’“effetto domino” che il Barile paventa in seno alla chiesa.
Vogliate scusare il mio sfogo. Vi ringrazio in anticipo se reputerete che io abbia un riscontro sulle vostre pagine.
Auguro a voi tutti responsabili di Settimana una più consona ortodossia e disciplina.

don Mario Buongarzoni (MC)

«Per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quello che vediamo bianco sia nero, se lo dice la Chiesa gerarchica» (S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, Regole 365, 13a). «Voglio che si dica di me (...) che sono stato un sacerdote di fede viva, semplice, (...) col Papa e per il Papa, sempre, anche nelle cose non definite» (Giovanni XXIII, Il Giornale dell’anima 407). Lei mi richiama a questo spirito, se non che il secondo testo citato (del 1903) prosegue: «Non disprezzo la critica, e tanto più mi guarderò bene dal pensare sinistramente o dal mancar di rispetto ai critici; la critica anzi l’amo» (408). La parola “critica” qui ha un altro significato da quello dell’articolo, ma ad esso può agganciarsi nel senso dell’esigenza di tenere insieme l’ascolto e l’obbedienza da una parte e la riflessione critica dall’altra.
Cercherò di essere dolce, sapendo che, secondo una massima salesiana, si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con cento barili di aceto e, partendo dalla dolcezza, confesso che la sua lettera denota una lunga esperienza di vita, che è più apprezzabile delle frasi firmate Dorabella, Imogene, Elettra, Lindoro, Foresto ecc. (uso nomi fittizi per evitare quelli veri), che in un certo sito Internet appaiono senza cognome (cioè senza responsabilità) e, lungi dall’affrontare i nodi del dibattito, si limitano a rilievi emozionali. La critica di costoro (uso alla lettera parole del card. Ratzinger su Falsini) «è ai miei occhi superficiale e senza valore» (La Maison-Dieu 2002/2,119).
Va da sé che la presente risposta non è un dibattito personale, ma un chiarimento di ciò che può interessare i lettori. In questo senso affermo che nell’articolo non c’era nessuna protesta di disobbedienza né incitamento alla stessa, ma, presupposta l’obbedienza, alcune riflessioni critiche in due direzioni.
Anzitutto la posizione di problemi originati dal testo e dal contesto del motu proprio, anche e principalmente in relazione ad altre affermazioni e consuetudini magisteriali. E quasi ogni giorno ne sorgono altri, ad esempio: che cosa si intende esattamente per “gruppo stabile” e con “formazione liturgica” relativa al Messale del 1962? che cosa si intende laddove si dichiara la possibilità di usare letture “approvate”: quelle del Messale del 1962 o dell’attuale Lezionario? perché “i superiori” non intervengono quando, come è già accaduto, si celebra la messa di S. Pio V non come azione pastorale verso un gruppo stabile, ma per creare un evento a cui prende parte chi vuole? Sollevare ed esaminare serenamente questi problemi è compatibile con un atteggiamento pratico di vera obbedienza – V. Croce nel n. 33 di Settimana è andato ben oltre – ed è in fondo nello spirito del card. Ratzinger, il quale scrisse che accettava interiormente il Messale di Paolo VI, ma che nei particolari «non considero ciascuna delle decisioni prese come la migliore possibile» (ivi 116).
In secondo luogo l’articolo conteneva cenni al percorso personale di Ratzinger. Qualcosa del genere è stato avviato da P.M. Gy in La Maison-Dieu 2002/1,171-178, cui lo stesso Ratzinger rispose (La Maison-Dieu 2002/2,113-120). Ognuno di noi ha una storia, dalla quale le sue tendenze/preferenze dipendono. Esaminare tutto questo aiuta a comprendere meglio, ma non significa contestare l’autorità di chi prende una posizione, né mostrarsi irriverenti verso la dignità del personaggio. Al limite, significa osservare che una certa scelta non è tra le migliori e che dipende da un vissuto. Sollevare ed esaminare serenamente questi problemi è compatibile con un atteggiamento pratico di vera obbedienza.
Concludo con due cenni alle citazioni di Balthasar.
I volti caricaturali di Hieronymus Bosch († 1516) sono una citazione un po’ pericolosa poiché nel famoso quadro del Carro di fieno i volti caricaturali e bestiali sono di quanti tirano il carro, mentre i volti seri sono di laici per bene, frati, monache, re e imperatori, cardinali e papi che raccolgono fieno e seguono il carro di fieno, cioè la vanità di questo mondo.
Infine «se la critica non si basa sull’amore, non serve a guarire nessuna ferita»: ci mancherebbe! Diamo per scontato che l’articolo di cui lei parla non si basi sull’amore. Ma la sua lettera distilla nettare d’amore? le dichiarazioni dei levebvriani si basano sull’amore? le espresse simpatie di alcuni politici per la messa di s. Pio V sono guidate dall’amore?

Riccardo Barile

COME INTERPRETARE L'ESPRESSIONE "ETERNO RIPOSO"?

Cara Settimana,
vorrei che qualcuno mi fornisse una spiegazione plausibile dell’espressione «eterno riposo», contenuta in una delle nostre più popolari preghiere per i defunti.
Per l'uomo biblico il «riposo eterno» è il sommo bene desiderabile, che si identifica con quella che i teologi sogliono chiamare «visione beatifica». Per i cristiani praticanti e per gli addetti ai lavori questo termine significa il paradiso. Agli altri comuni mortali che entrano in chiesa soltanto per i funerali, ed eventualmente anche la notte di Natale, e che pure si vogliono far chiamare cristiani, cosa dice l’espressione «riposo eterno»?
Non ho fatto un’indagine scientifica con gli strumenti che attualmente sono a disposizione. Mi augurerei che qualcuno lo facesse, se pur non l'ha già fatto. Ho soltanto chiesto alla gente comune e ho scoperto quello che sospettavo.
Potrei citare un campionario di risposte, talune anche scontate, altre crudamente sconvolgenti: «Dormire per sempre è il destino che ci attende», «Un sonno eterno da cui non ci si sveglia più», «Una specie di coma totale in cui cessa ogni forma di vita attiva», «Un’ibernazione perpetua, quasi una conservazione sotto vuoto, a bassissime temperature», «Si cade in letargo, come certe specie di viventi», «È come il Nirvana che i buddisti predicano».
Per finire: cosa significa per te: «Ripòsino in pace»? Risposta: «Che non bisogna disturbarli», «Che si devono lasciar tranquilli», «La quiete sovrana in cui sono immersi va rispettata».
C'è da riflettere, ma anche da fare qualcosa. Due millenni ci separano dalla cultura in cui è nata la Bibbia, duemila chilometri ci dividono dal mondo semita, anni luce si frappongono fra quella mentalità e l'uomo televisivo di oggi. Senza discutere – e ce ne sarebbe all'infinito –, io comincio la liturgia funebre, specialmente quando ci sono in chiesa quei tali cristiani di cui si diceva prima, e sono la maggioranza, così: «Accogli Signore nella tua casa il nostro fratello… Donagli la gioia eterna, perché possa godere con te nella felicità che dura sempre».

don Pietro Mozzato (VE)
pmozzato@libero.it

Non c’è dubbio che il termine “riposo” nell’eucologia cristiana sia oggi a rischio di grossolani fraintendimenti, soprattutto in un contesto sociale dove il riposo si identifica sovente con il semplice far niente o dormire dopo una fatica o, paradossalmente, dopo una movimentata “festa” dove la notte è stata scambiata con il giorno.
Il rischio di malinteso ha, tuttavia, radici ben più gravi e profonde. In particolare, l’affievolimento della fede nella vita eterna con la conseguente ricaduta in concezioni pagane dell’aldilà: l’ade dei greci, gli inferi dei latini o lo sheòl immaginato dal popolo del Primo Testamento nel suo lento cammino verso la piena rivelazione. Cioè, un mondo di profonda oscurità (Sal 88,7.13) dove i morti sopravvivono come ombre in un’esistenza senza valore e senza gioia, «terra di caligine e di disordine dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,22).

Familiarità con il linguaggio biblico. I malintesi odierni sul «riposo eterno» sono causati soprattutto da una lacunosa formazione biblica. «Massima è l’importanza della sacra Scrittura nel celebrare la liturgia. Da essa, infatti, vengono tratte le letture da spiegare nell’omelia e i salmi da cantare; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici e da essa prendono significato le azioni e i segni» (SC 24). Non ci può essere, pertanto, alcuna autentica intelligenza delle realtà cristiane se non a partire dalla Bibbia e dalla liturgia, che s. Agostino definiva «tamquam visibile verbum», cioè una parola, un messaggio che si fa immagine (In Joh. Ev. Tract. LXXX, 3, CCL 36, 529).
Per questa ragione, lo stesso numero della costituzione conciliare sulla liturgia continua: «Perciò, allo scopo di favorire la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga promossa quella soave e viva conoscenza della sacra Scrittura che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali che occidentali».
Ora, la Scrittura – come la liturgia – non possono presentare l’aldilà, le realtà soprannaturali se non con immagini umane, a partire dall’esperienza umana, per quanto inadeguata ad esprimere la realtà di Dio e della vita oltre la morte.
Il riposo è il momento in cui l’essere umano non solo rigenera le forze consumate durante il lavoro, ma è anche, e soprattutto, il momento in cui egli trova la gioia profonda di quelle relazioni umane che danno pienezza di senso alla vita. Il riposo non è pertanto un semplice far niente. Anzi, il restare del tutto inattivi e soli stanca e distrugge più del lavoro.
La vita eterna non ha niente da spartire con la “casa di riposo”. Già nel Primo Testamento essa è adombrata come il pieno raggiungimento di tutte le umane aspirazioni; piena comunione del giusto con Dio, partecipazione alla vita stessa di Dio, un Dio che «opera sempre» (Gv 5,17). «Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio ho posto il mio rifugio per narrare tutte le sue opere presso le porte della città di Sion» (Sal 73,28). Per questo la Bibbia fa del riposo l’immagine del traguardo ultimo della nostra esistenza.

Il riposo come compimento della storia della salvezza. È soprattutto il riposo sabbatico che ci permette di interpretare correttamente la preghiera che eleviamo a Dio perché conceda il riposo eterno ai defunti. Il riposo sabbatico, infatti, è presentato dalla Scrittura come un dono di Dio (cf. Es 16,29), perché gli uomini possano sperimentare la libertà dalla fatica, dalla schiavitù (cf. Es 23,12), da ogni sopruso di un uomo sull’altro (cf. Gs 1,13-15). Il riposo è l’immagine con la quale la Scrittura esprime il raggiungimento della terra promessa dopo il lungo e faticoso esodo dalla schiavitù dell’Egitto (cf. Dt 5,15).
Il profeta Ezechiele riprende la stessa immagine per descrivere il secondo esodo, il ritorno a Gerusalemme dopo la schiavitù babilonese: «Vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore» (37,14). Il salmo 23 canta: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare...». La lettera agli Ebrei, commentando il salmo 95, riprende questa immagine del riposo per esprimere il compimento del disegno divino di salvezza (cf. 4,1-3).
Il riposo di cui parla la Scrittura, e quindi anche la preghiera cristiana, non è il silenzio della morte, ma il possesso di tutte le benedizioni di Dio. Infatti, nella spiritualità biblica riposare significa partecipare a quel riposo di Dio che celebra il compimento della creazione, anzi, di tutto il suo progetto di salvezza (cf. Gn 2,3). In altre parole, riposare significa prendere parte alla vita gloriosa di Dio. «Beati fin da questo momento i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono» (Ap 14,13). In contrapposizione, «non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome» (Ap 14,11).
Il raggiungimento del riposo pieno e gioioso è appannaggio di quanti non hanno abbandonato la fiducia in Dio e, avendo creduto alla parola del suo Figlio Gesù, non hanno piantato definitivamente le loro tende per adorare quel vitello d’oro che è simbolo di tutte le nostre idolatrie (cf. Eb 3,7-19).

Alle origini della nostra preghiera per i defunti. Alla luce della Scrittura, la tradizionale preghiera che la pietà cristiana rivolge al Signore per i defunti non dovrebbe dare adito né ad ambiguità né a banalizzazioni.
Il breve testo si concentra su due eloquenti immagini bibliche che, ovviamente, si radicano su due forti esperienze umane: il riposo (requies) e la luce (lux). Parole chiarissime e familiari per i cristiani dei primi secoli. Esse, infatti, si trovano ricorrenti nelle più antiche iscrizioni funerarie cristiane (cf. Requies in DACL, t. XIV, II).
In una necropoli cristiana risalente al V secolo e scoperta nel 1911 ad Ain Zara, 14 km a Sud-est di Tripoli, per ben 26 volte si trova scritta sulle tombe questa formula di preghiera: «Requiem aeternam det tibi Dominus et lux perpetua luceat tibi». Formula che è mutuata dall’apocrifo IV Libro di Esdra (III sec.).
Questa invocazione, opportunamente adattata al plurale, entrò nel Graduale Romano in epoca gregoriana (VI sec.) come canto d’introito per la messa funebre e di lì passò nella prassi della preghiera popolare con l’aggiunta del «requiescant in pace». Quest’ultimo augurio è desunto dalla memoria quotidiana dei defunti che, a partire dal breviario francescano (XIII sec.), concludeva le diverse ore dell’ufficiatura monastica (= Fidelium animae per misericordiam Dei requiescant in pace. Amen) e, poco tempo dopo, anche la messa per i defunti (cf. M. Righetti, Storia liturgica, II 377; 628-629; J.A. Jungmann, Missarum Sollemnia, II 325, 333).
Ora, qualsiasi espressione che, in una monizione introduttiva, evochi con termini più immediati la fede e la speranza nella vita eterna è più che lecita, purché non si rinunci nell’eucologia liturgica e privata ad una formula che ci ricollega alle immagini della Scrittura e a quasi venti secoli di tradizione, anche se ciò richiede una previa catechesi biblica.

Silvano Sirboni

ANCORA SUL MOTU PROPRIO

Cara Settimana,
sono anch’io un sacerdote ultraottantenne che, per più di vent’anni, ha celebrato secondo il vecchio rito con attenzione, partecipazione e spesso con gioia, ma che non lo rimpiange perché sa che con il nuovo rito, oltre al fatto di essere capito dalla gente, ha guadagnato in termini di valorizzazione della Parola, di coinvolgimento del popolo di Dio, di recupero della dimensione conviviale all’eucaristia. Che su questi aspetti, come su certi pericoli che alcune scelte possono comportare (e si vanno purtroppo verificando) venga richiamata l’attenzione dell’autorità con il dovuto rispetto, come ha fatto senz’altro p. Barile, mi pare non solo legittimo ma doveroso quale contributo per il bene della chiesa, come riconosce anche il Codice di diritto canonico al can. 212 § 3.
Perché mi paiono bene dette, chiudo con le parole di Enzo Bianchi: «Noi cattolici, ma per convinzione profonda che il vescovo di Roma è il servo della comunione ecclesiale, obbediamo anche a prezzo di fatica e di sofferenza e di non piena convinzione di ciò che viene chiesto».
fra E. Vallauri ofmcap (Tortona)

VERSO LA FINE IN EUROPA DELLE "MISSIONI AD GENTES"

Caro direttore,
mi chiamo Angelo Falchi, sono un ex missionario d’emigrazione, sono stato in Inghilterra dal 1982 al 1989, prima a Londra-Enfield poi a Bradford. La mia diocesi è San Miniato.
Vorrei esporre un problema che mi ha amareggiato per l’intera estate e che, affrontato dalla sua rivista, forse potrebbe trovare una soluzione. Si tratta della situazione delle missioni per i lavoratori italiani in Europa, che fanno capo alla “Migrantes”. Mi occupo solo di quelle in Gran Bretagna, che conosco molto meglio delle altre, anche se quelle in altri Paesi europei non mi sono sconosciute.
A metà agosto il mio successore nella missione di Bradford per ragioni di salute ha dovuto lasciare ed è rientrato nella sua diocesi in Italia. Ora quella missione è in attesa di avere un nuovo missionario, che non si trova; o se qualcuno presenta una certa disponibilità a tale impegno pastorale, non trova apertura da parte del suo vescovo.
Lo scorso luglio ho potuto constatare “de visu” il bisogno che ancora c’è di un sacerdote italiano in quelle comunità (non solo Bradford, ma anche nelle città attorno come Halifax, Huddersfield, Keighley, Leeds…, dove mensilmente non è mai mancata la presenza e l’opera del sacerdote, molto apprezzata dal clero e dal vescovo locale. Ho sentito con i miei orecchi il lamento angosciante delle persone che collaborano strettamente con la missione all’idea di rimanere soli, dopo la partenza del missionario, ed un ritornello, che andavano ripetendo e che mi prendeva dentro: «Non ci lasciate soli, non ci abbandonate!».
Ho potuto vedere come è cresciuto in questi anni, anche tra i giovani, il senso di appartenenza alla comunità cristiana, la gioia di essere italiani, lo spirito di solidarietà tra loro e di collaborazione con la missione, perché si potesse raggiungere il maggior numero possibile di persone. La felice opportunità che capitò sul finire del mio mandato a Bradford, che permise di acquistare, sia pure con enormi sacrifici (lo scrivente ben li conosce tutti!) l’attuale sede (1988), si è rivelata, credo, nel tempo la principale causa della costante aggregazione della comunità. Avere una sede propria – con tutte le comodità che consentono il culto, la vita associativa, la scuola per i bambini, il patronato, il ritrovo per gli anziani, il calore umano che caratterizza questi momenti di ritrovo e che fa sentire questi nostri connazionali meno soli e più uniti - ha contribuito alla crescita umana e cristiana della gente.
Mi sembrerebbe un vero peccato se le aspettative – quelle della gente che è rimasta sola – venissero disattese; a Bradford occorre ancora per qualche anno un missionario. Quello dell’integrazione ormai avvenuta è un discorso che si fa a tavolino, ma che mostra la corda non appena si sta con questa gente.
Faccio una proposta, sulla quale mi piacerebbe si aprisse un confronto. Molte diocesi, quelle più grandi e meglio organizzate hanno fondato nel passato “missioni ad gentes” in varie parti del mondo e continuano a guidarle con uomini e mezzi. Le diocesi più piccole non possono permettersi una cosa di questo genere. Ma perché non affidare a queste diocesi il compito di assicurare la presenza di un sacerdote in una determinata missione (in territorio europeo), dove sono presenti i nostri connazionali al lavoro, come se fosse territorio metropolitano della diocesi stessa? Il vescovo italiano “presterebbe” un suo sacerdote al vescovo di quella nazione per il lavoro specifico tra gli italiani. È ovvio che il sacerdote seguirebbe le indicazioni del vescovo locale e lavorerebbe per favorire la migliore integrazione nella comunità cristiana locale. (Non l’abbiamo sempre fatto? Ricordo che negli anni della mia presenza in Gran Bretagna si diceva che la missione migliore era quella che lavorava per la propria scomparsa!). Di fatto, però, i tempi forse non sono ancora maturi per cantare il “requiescat in pace” di queste missioni, c’è ancora vitalità, che va canalizzata, ma non abbandonata a se stessa. Sarebbe una specie di sacerdote “fidei donum” all’interno della comunità cristiana; sarebbe un primo passo verso la nuova stagione di “missio ad gentes” che la Cei si accinge a varare per la chiesa italiana.
Non mi è chiaro un aspetto: quando diventai prete io (nel 1967) si diceva che si era “preti per la chiesa”; a distanza di anni mi ritrovo a sentire che si è “vescovi per la diocesi”. E il paolino «assillo quotidiano per tutte le chiese» che fine ha fatto?

don Angelo Falchi
56036 Forcoli (PI)

SULLA SETTIMANA SOCIALE DI PISA E PISTOIA

Caro direttore,
di ritorno dalla Settimana Sociale di Pistoia e Pisa, come delegazione novarese ci siamo confrontati su quanto avevamo vissuto insieme durante i lavori. Ne sono scaturite alcune considerazioni personali che inviamo a Settimana.
A me preme sottolineare un fatto, forse poco appariscente ma rivelatore del clima che si è respirato: la constatazione che la stragrande maggioranza dei relatori erano docenti universitari e di questo se ne sono accorti anche i responsabili delle giornate quando, ad un intervento di don Oreste Benzi sul recupero delle “ragazze di strada”, il moderatore di turno ha detto che don Benzi non doveva intervenire facendo una domanda, ma stare dalla parte dei relatori.
Questa dicotomia tra relazioni interessanti, corpose, di alto livello, a volte forse fin troppo accademiche, la si percepiva ancora di più quando al fine di ogni conferenza si apriva il dibattito con i delegati (espressione di un cattolicesimo sociale molto radicato nella vita del popolo italiano), i quali con interventi puntuali e precisi mettevano a fuoco problematiche scottanti riguardanti il vissuto concreto delle nostre comunità e riscuotevano applausi scroscianti, a volte anche un poco imbarazzanti per gli stessi conferenzieri.
Alessandro Plotti, vescovo di Pisa, nell’omelia conclusiva della messa celebrata nel magnifico duomo, riprendendo il tema della cittadinanza, ricordava a tutti con tono perentorio, come nella chiesa non c’è e non ci deve essere cittadinanza per i “profeti di sventura”. I cattolici italiani, invitati a chinarsi sui feriti della storia d’ogni tempo, sono perciò sollecitati ad essere testimoni di speranza.

don Mario Bandera
Centro missionario diocesano
e dell’Ufficio pastorale del lavoro

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Tra i molti applausi che normalmente scandiscono il tempo dei convegni e che in qualche misura segnano gli umori, le tendenze e forse anche “il tifo” dei partecipanti, nella Settimana Sociale di Pistoia e Pisa, tre mi sono rimasti particolarmente impressi per durata e intensità.
Il primo è stato scatenato dall’intervento di un anonimo partecipante (di cui non ricordo il nome!) che dal palco ha garbatamente rimproverato agli organizzatori l’invasiva ed esclusiva presenza di professori universitari sul palco dei relatori a fronte della disarmata assenza dei poveri: «e i poveri, si chiedeva, che sono il soggetto della Settimana e che più di altri dovrebbero essere fruitori del bene comune, dove sono? Perché non riusciamo a trovare i modi per dar loro la parola?».
Il secondo applauso è andato a Stefano Zamagni, ordinario di economia politica presso l’università di Bologna. Il relatore mi ha coinvolto per la lucidità, la coerenza e gli spunti innovativi di una relazione, forse tra le più interessanti della Settimana. «I veri poveri sono i giovani. Stato e mercato da soli non bastano, occorre dare spazio all’impresa sociale, alla cooperazione sociale, evitando il pericolo della filantropia e dell’assistenzialismo. Precarietà è il nuovo nome della povertà e dell’insicurezza e pertanto non ci può essere solidarietà senza una presenza attiva e partecipata all’interno dei percorsi produttivi».
Il tema chiamava in gioco la “concezione antropologica” e dintorni, ma la stragrande maggioranza dei partecipanti avrà pensato di primo acchito ai molti giovani delle nostre comunità, non solo disoccupati o sottoccupati, ma anche disamorati della vita sociale e politica, impossibilitati a emergere perché impediti di immergersi nella “vita che conta”. Una delle risposte, che ha favorito l’applauso al professor Zamagni, è stata la proposta di «costruire una democrazia deliberativa come risposta positiva all’antipolitica». Non si deve temere la globalizzazione economica, giustificata come un’«opportunità provvidenziale che permette di rendere i lontani prossimi» ma, al contrario, è importante costruire una democrazia dove la persona sia al centro ma la relazione sia lo stile di vita.
L’ultimo applauso è stato dedicato a quel personaggio, ridondante e fuori dalle righe che è sempre don Oreste Benzi: simpaticamente goffo nel suo porgere, ma straordinariamente efficace nei contenuti; un bagno di realismo di fronte alla tentazione sempre presente di perdersi tra le nuvole: «Il primo nemico del bene comune siamo noi!». Non ci sono molte novità nelle parole di don Oreste: prostitute, tossici, orfani di ogni tipo, detenuti e ri-detenuti sono “la corte dei miracoli” di questo inquietante prete che ci ricorda ancora che il bene comune o passa anche attraverso queste categorie oppure è solo bene di pochi. Ripercorrere con lui i sentieri delle povertà è un’immersione evangelica, un’occasione per leggere il futuro dell’uomo negli occhi di Dio. E allora, don Oreste, prenditi anche questo ultimo applauso del cuore!

don Dino Campiotti
direttore Caritas diocesana

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Si potrebbe dire che questi grandi convegni sono un po’ come la Rai “Di tutto di più…”. Anche a Pistoia e a Pisa si è detto un po’ di tutto. Si sono toccati, come quasi sempre accade, i cosiddetti valori “non negoziabili” come la vita, la famiglia, la persona, la libertà…
Si sono poi sottolineati anche altri “nodi” importanti della società, come il diritto alla casa, al lavoro. Non sono mancati i riferimenti alla pace, al disarmo, alla nonviolenza. Ma il richiamo a questi valori sono stati fatti più dai partecipanti, dai vari rappresentanti delle realtà locali che lavorano quotidianamente, sul campo.
Ha scritto il quotidiano Avvenire lo scorso 20 ottobre: «Così può capitare che una regia piacevolmente “toscana”, con ironia e profezia, dia la parola l’uno dietro l’altro a don Fabio Corazzina di Pax Christi e a don Enrico Pirotta, cappellano militare…». Don Fabio ha richiamato l’importanza di pronunciarsi, secondo la Populorum progressio, sul valore della nonviolenza evangelica e sul disarmo. «Le comunità cristiane – ha detto – dovrebbero sostenere economie e politiche di disarmo sui loro territori e promuovere una spiritualità, che valorizzi la scelta nonviolenta». Infine, ha rivolto un invito perché «il nostro denaro non abbia a che fare con le banche armate». Come dire che anche questi dovrebbero essere considerati valori “non negoziabili”.
Molti altri interventi hanno richiamato all’impegno e alla testimonianza credibile e coerente su questi temi. «Una chiesa di parte – diceva don Fabio ricordando don Tonino Bello –, non preoccupata dei segni del potere ma del potere dei segni». Certo, la strada è ancora lunga, anche nella chiesa.
La novità del dialogo quasi stupisce o addirittura fa paura. Avvenire, facendo la cronaca dell’intervento di Pax Christi e del cappellano militare scriveva: «senza che volino gli stracci», denotando un certo stupore di fronte ad un metodo del dialogo e del confronto che, pur partendo da posizioni diverse, resta franco e leale, imprescindibile in ogni caso per costruire rapporti di pace e che dovrebbe essere caratteristica comune nel cammino di tutti i giorni della comunità cristiana.

don Renato Sacco
Comm. dioc. Giustizia e pace

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«Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza…». Credo che questa citazione del card. C.M. Martini esprima molto bene il mio stato d’animo al ritorno dalla Settimana Sociale.
È stata per me la prima esperienza di partecipazione ad un momento importante della vita della nostra chiesa e vi ho partecipato con molto entusiasmo perché credo sia quanto mai urgente che si pongano al centro dell’azione pastorale i temi sociali.
Vivendo ogni giorno a contatto con i problemi del lavoro e delle nuove povertà e notando quanto incida in molte famiglie l’assenza del lavoro, ho apprezzato molto le parole del papa, nel saluto inviato a tutti i convegnisti, quando rimetteva al centro della questione sociale il problema della precarietà e del lavoro quali discriminanti per il raggiungimento del vero “bene comune”.
È a mio parere il “lavoro buono”, ovvero quel lavoro che rimette al centro l’uomo, che gli ridona la sua dignità, che gli permette di costruire un progetto di vita serio e duraturo, che come cristiani abbiamo il dovere di promuovere. Per troppo tempo abbiamo messo da parte le questioni sociali relegandole ad oggetto di convegni ma non le abbiamo mai assunte come paradigma vero del nostro agire pastorale.
È tempo di passare all’azione concreta, ad un impegno vero che sia di denuncia della precarietà, dello sfruttamento e di promozione del lavoro a misura d’uomo. Mi è dispiaciuto che sia mancato in questo convegno il riferimento ai tanti fratelli stranieri che vengono nel nostro territorio per trovare un lavoro e troppo spesso sono vittime di sfruttamento. Molti di loro condividono con noi la stessa fede e credo che ad appuntamenti di questo genere anch’essi debbano trovare cittadinanza. Anche così potremo vincere l’indifferenza, dare speranza alla nostra chiesa e alle nostre comunità e costruire insieme il bene comune.
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Elena Ugazio
presidente Acli Novara

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Era la prima volta che partecipavo ad un’assise così importante come le Settimane Sociali tenutasi a Pistoia e Pisa, il mio coinvolgimento è legato al fatto che da anni partecipo ai lavori della Commissione regionale per la salvaguardia del creato, dove in più occasioni sono stati sottolineati i vari problemi inerenti all’ambiente del Piemonte.
Per la verità questo aspetto, nel più vasto contesto del tema generale legato al “bene comune”, è stato poco trattato. Certo, i problemi con i quali ci siamo confrontati erano enormi e spaziavano a 360° sui problemi socio-economici del nostro paese. Va detto, però, che durante gli interventi è stato ricordato come il “bene comune” racchiude in sé l’attenzione ad una tematica così caratteristica come quella legata al rispetto dell’ambiente, agli sprechi e ai rifiuti che la nostra società consumistica continua a produrre. La stessa cosa si può affermare quando si parla dell’acqua, bene essenziale necessario alla vita. Essa dev’essere una risorsa per tutti e non un privilegio per pochi. È anche stato fatto notare che esiste nell’opinione pubblica italiana poca sensibilità etica su questo tema, anche a livello di coscienza cristiana, tanto che, quando si provoca un danno all’ambiente, questo non viene percepito nella sua gravità.
Le tematiche che si sono succedute in questi cento anni di Settimane Sociali hanno sempre toccato argomenti legati al cammino della società italiana; il tema dell’ecologia, essendo un argomento apparso solo da qualche anno come emergenza che riguarda tutti, avrà certamente un ruolo di primo piano nelle future Settimane Sociali.

Claudia Sgarabottolo
Ufficio pastorale del lavoro
Comm. Reg. Salvaguardia del creato

UN PARROCO, UN VISITATORE E 8 COMUNITA' NEOCATECUMENALI

Cara Settimana,
chiedo gentilmente, se possibile, un parere d'un vostro esperto a riguardo della lettera sottoesposta e dei relativi problemi in particolare. L'autore della lettera è il visitatore straordinario che visita, a nome del superiore generale, la comunità religiosa pastoralmente responsabile della parrocchia. La lettera (sono state tolte le indicazioni di nomi, luoghi, diocesi, ordine-congregazione) è indirizzata al parroco della parrocchia interessata, ai responsabili delle comunità del Cammino neocatecumenale esistenti in parrocchia, e – per conoscenza – all'ordinario diocesano e al superiore provinciale della congregazione-ordine interessati.

«Carissimi fratelli e sorelle,
vi porgo un cordiale saluto nella pace di Cristo risorto... Dal... al... ho fatto la visita canonica straordinaria, a nome del superiore generale... Durante la visita, ho dedicato tempo all'ascolto delle persone e alla visione delle situazioni. Ho parlato con la comunità religiosa, con i responsabili delle comunità del Cammino, con i rappresentanti dei gruppi parrocchiali. Ho incontrato s.e. mons. vescovo, il vicario episcopale per la pastorale della città, il superiore provinciale. Ho letto la documentazione che si trova nell'archivio della comunità religiosa riguardante le visite canoniche...; tra l'altro, ho notato come alcune delle indicazioni offerte a riguardo del "Cammino" siano state disattese. Ho meditato sugli ultimi pronunciamenti del magistero del papa e dei vescovi.
A fine della visita, così scrivevo: "Nella comunità parrocchiale ci sono otto comunità del Cammino neocatecumenale. In questo momento c'è tensione soprattutto tra la comunità religiosa e tali comunità". Inoltre aggiungevo: "La comunità religiosa continui con la sua proposta, relativa al nostro carisma, di animazione della parrocchia, secondo i nostri documenti ufficiali; le linee di pastorale per la parrocchia vengono date dalla comunità religiosa e dal consiglio pastorale". Infine, parlavo di una "lettera di orientamento", che avrei fatto giungere, dopo ulteriori approfondimenti, alla comunità religiosa e ai responsabili delle comunità neocatecumenali.
Dopo discernimento e preghiera, sono giunto a queste conclusioni, che vi indico in vista di un cammino di comunione.
"Al di sopra di tutto vi sia la carità". Ciò che si deve salvaguardare è la carità, ciò che si deve edificare è la comunità, ciò che si deve vivere è la comunione.
Nella situazione dell'attuale tensione e in vista dell'edificazione della comunità parrocchiale, vi indico i seguenti passi da realizzare progressivamente. Essi vi offrono concreti cammini di comunione.
1. Per favorire la crescita armonica della comunità parrocchiale e del nostro carisma, constato che la presenza di otto "comunità del Cammino" sia troppo numerosa. Invito perciò i responsabili delle comunità del Cammino neocatecumenale a trovare soluzioni alternative, come la fusione di alcune comunità o il loro trasferimento in altre sedi, in modo che nella parrocchia non vi siano più di tre comunità. Inoltre, invito i responsabili a non iniziare altre catechesi; se sorgerà l'esigenza di altre catechesi, queste non siano svolte nella parrocchia.
2. Per realizzare la comunione visibile e per evitare sovrapposizione di orario, le celebrazioni eucaristiche del sabato sera per le "comunità del Cammino" presenti in parrocchia, il sabato sera negli ambienti parrocchiali non ci saranno più di tre celebrazioni eucaristiche. In particolare poi nel momento culminante dell'anno liturgico, a partire dall'anno 2008 nella chiesa parrocchiale o negli ambienti dell'Oratorio[1] non sia tenuta la celebrazione della veglia pasquale.
3. Per concretizzare l'indicazione della lettera della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti del 1° dicembre 2005, indirizzata ai responsabili del Cammino, in cui si chiede che "almeno una domenica al mese le comunità del Cammino neocatecumenale devono partecipare alla santa messa della comunità parrocchiale", chiedo che una volta al mese, al sabato sera, in tutte le sale dell'Oratorio non vi sia nessuna celebrazione eucaristica.
4. Per potenziare la comunità pastorale e l'espressione del nostro carisma nella parrocchia, che è stata affidata dal vescovo alla congregazione, si trovino orientamenti convergenti all'interno del consiglio pastorale e si sviluppi una proposta esplicitamente nostra di animazione della parrocchia, secondo i nostri documenti ufficiali.
Sono consapevole che la via proposta è ardua; i passi non sono facili da realizzare. "È la carità di Cristo che mi spinge". L'edificazione della comunità parrocchiale chiede scelte coraggiose. Il Cammino neocatecumenale sta facendo un grande bene nella chiesa, creando però alcune tensioni, soprattutto nell'inserimento pastorale parrocchiale (Benedetto XVI, incontro con i parroci e il clero della diocesi di Roma, 22 febbraio 2007). In questi anni scorsi, non si è riflettuto sufficientemente da parte della nostra comunità e della comunità parrocchiale su che cosa significhi che una parrocchia sia animata da un carisma di vita consacrata.
Lo Spirito Santo, che è Spirito di verità e di amore, vi suggerirà come realizzare questi orientamenti. Lascio al superiore provinciale, in dialogo con il vescovo, di vederne i tempi di concretizzazione fin dall'inizio del nuovo anno pastorale. La Vergine Maria...
Con sincera stima e affetto fraterno».

Domando gentilmente (e ringrazio delle risposte eventuali):
1. Può il superiore generale d'un ordine-congregazione giungere a queste conclusioni, senza previo e pieno accordo col vescovo diocesano? Senza coinvolgere direttamente i fedeli laici della parrocchia (con i componenti delle comunità del Cammino)?
2. Il Cammino è stato chiamato in parrocchia 30 anni fa (e seguito in questi anni) dai parroci (e sacerdoti della comunità religiosa) della stessa congregazione-ordine che si sono succeduti. Hanno sbagliato tutto?

lettera firmata

La risposta alla seconda domanda è semplice: il Cammino è «un itinerario di formazione cattolica, valida per la società e per i tempi odierni» (St 1). Dunque, non si sono persi trent’anni.
Invece, la risposta alla prima domanda è più difficile, poiché manca la conoscenza del contenzioso e siamo di fronte a casi-limite per i quali non si possono che ribadire le leggi, la cui osservanza è la misura dell’agire e avvia alla soluzione dei conflitti.
Il caso è comunque complesso poiché richiede di armonizzare più soggetti:
1) il vescovo e la sua autorità pastorale, cui i religiosi sono sottoposti in ciò che riguarda «la cura delle anime, l’esercizio pubblico del culto divino e le altre opere di apostolato» (can. 678,1 e 681,1);
2) il Cammino, con uno Statuto approvato dalla Santa Sede;
3) l’ordinario religioso (il visitatore) che, a differenza del vescovo, è “ordinario” solo per i confratelli (can. 134,1), i quali nell’apostolato «sono soggetti anche ai propri superiori e devono mantenersi fedeli alla disciplina dell’istituto» (can. 678,2);
4) la comunità religiosa che collabora all’apostolato parrocchiale (can. 519) ma che, come persona giuridica, non è parroco (can. 520,1);
5) il parroco, che esercita l’azione pastorale «sotto l’autorità del vescovo diocesano» (can. 519) e che è ben distinto dalla comunità religiosa, prospettiva mal digerita da molti religiosi che continuano a sognare la parrocchia “affidata alla comunità”, ma così non è.
Tenendo conto di quanto sopra, alla domanda: «Poteva il visitatore scrivere quello che ha scritto?», la risposta è: «Sì, lo poteva». E per tre ragioni, poiché il visitatore:
a) rispetta lo Statuto del Cammino quanto all’eucaristia in comunità e alle non determinazioni circa la veglia pasquale (St 13,3; 12,3 e Lettera del 1.12.2005, n. 1);
b) rispetta i suoi limiti di essere “non ordinario” verso i fedeli del Cammino, ai quali, dopo aver parlato con il vescovo, si rivolge non dando ordini, ma usando i termini “invito / chiedo” (qui non siamo di fronte a una lettera d’amore e ogni parola va assunta in senso tecnico);
c) interviene come “ordinario” presso i religiosi spronandoli a far emergere il carisma proprio e, dopo aver parlato con il vescovo (è la reciproca intesa di cui al can. 678,3), delimita un loro apostolato che nella parrocchia non risulta essere necessario né in senso assoluto né in quanto richiesto dal vescovo.
Queste le leggi e le dinamiche, ma è chiaro che in se stesse sono vuote e il risolutivo è una valutazione del Cammino e dell’apostolato cristiano e parrocchiale.
Comunque, a mio fallibile parere, c’è anche qualche ombra. Mentre emerge la comunità dei religiosi, è troppo assente la funzione del parroco: invece, è a lui che è affidata la parrocchia ed è lui che deve prendere o eseguire delle decisioni – tra l’altro il Cammino «comincia nella parrocchia su invito del parroco» (St 9) –; è vero che si precisa che la lettera è indirizzata anche al parroco, ma nel testo non è molto presente.
Sarebbe anche stato auspicabile che le determinazioni del visitatore – valide per la comunità religiosa – fossero rivolte direttamente a quest’ultima (ad esempio, non accogliere più di tre comunità) con l’invito al Cammino a tenerne conto e contestualmente confermate dal vescovo, il vero “ordinario” del Cammino, con un deciso “ordino” o “dispongo”.
Infine, il visitatore dice di aver parlato con i responsabili del Cammino, mentre la domanda posta a Settimana lamenta un non coinvolgimento degli stessi: forse sono vere entrambe le asserzioni, nel senso che forse i contatti sono avvenuti prima della definizione delle misure in oggetto. Sarebbe stato auspicabile un incontro con a fronte il testo (bozza) delle misure messe a punto e prima dell’invio della lettera: è un metodo che in genere funziona e che già Sparafucile proponeva a Rigoletto per la consegna della somma in vista di uccidere il duca: «Una metà s’anticipa, il resto si dà poi».
Sia concesso concludere con una malizia del mestiere. Abbiamo scomodato due “ordinari”, uno Statuto, un parroco e una comunità religiosa. Se un altro “gruppo stabile” – come lo è il Cammino – avesse chiesto di celebrare la messa e gli altri sacramenti come al 1962, il parroco avrebbe potuto decidere tutto da solo e senza complicazioni. Siamo di fronte a una saggezza superiore, oppure si fanno figli e figliastri? (Riccardo Barile)


[1] In realtà la costruzione è sorta ed è usata come Centro parrocchiale (ndr).

UNA RIFLESSIONE A PARTIRE DAGLI ULTIMI FATTI DI CRONACA

Caro direttore,
mi permetto di scrivere queste riflessioni dopo alcuni avvenimenti che, ampiamente supportati dai mass media, hanno creato all’arme in molte persone.
È chiaro che ogni crimine, ogni delitto, ogni omicidio, è sempre un episodio sconvolgente, che fa inorridire la coscienza di ciascuno ma, quando a commettere un delitto sono dei rom, sembra che il crimine diventi particolarmente odioso e l’assassino si trasforma in un mostro esecrabile da sbattere in prima pagina.
I recenti fatti di Roma sono lì a dimostrare come ogni qualvolta succede un gesto efferato come la violenza e l’uccisione di una giovane donna indifesa, perpetrato da un cittadino rom, scateni una reazione violenta che si ripercuote su altri cittadini innocenti, colpevoli solo, in quanto rumeni, di provenire dalla stessa nazione dell’assassino.
Gli zingari, siano essi rom, sinti ecc., da secoli sono discriminati ed emarginati, la loro semplice apparizione in un qualsiasi comune o borgata delle nostre città, scatena una repulsione immediata per la fama poco onorevole che li accompagna. Nell’immaginario collettivo essi sono visti come ladri, rapitori di bambini, per non dire di peggio Ma quello che sconcerta ancora di più, è che i rom non sembrano preoccuparsi di questa nomea che si sono procurati con alcuni loro atteggiamenti ripugnanti come il furto a danno dei più deboli o il mandare i bambini ad elemosinare lungo le strade, allontanando sempre più un difficile ma non impossibile inserimento nella nostra società.
Nel passato molti governanti hanno tentato di porre soluzione al problema degli zingari attraverso delle leggi che costantemente li mettevano al bando; Hitler, unitamente agli ebrei, attuò la soluzione finale anche nei loro confronti: con teutonica obbedienza e determinazione le SS si diedero da fare per rastrellarli da tutta Europa e infilarli nelle camere a gas. La sconfitta del nazismo evitò che questo criminale disegno si compisse, e lascia l’amaro in bocca a chi oggi, visitando i vari campi di stermino, scopre che ci sono lapidi e cippi che ricordano tutte le vittime dei popoli soggiogati dal nazismo, ma stranamente non c’è nessun ricordo che faccia memoria delle migliaia di vittime del popolo zingaro.
Non è certamente facile il dialogo con chi vive ai margini della società e della legge, ma lasciare che un corpo estraneo viva perennemente senza un minimo di contatto vitale con altre persone è ancora più deleterio. In una società multietnica e multiculturale come quella che si va delineando in Europa, non si può pensare di erigere mura che separano o ghettizzano, ma dev’essere un punto centrale delle istituzioni costruire ponti che favoriscano la conoscenza e il dialogo reciproco.
La comunità cristiana, sotto questo profilo (proprio perché il mondo celtico-pagano circostante invoca “soluzioni forti” nei confronti dei rom), ha il dovere di percorrere tutte le strade che instaurino rapporti non solo di tolleranza, ma di rispetto e, perché no?, d’amicizia.
Diverso il discorso relativo rumeni. Il fatto che la Romania sia entrata a far parte dell’Unione Europea, pone i rumeni nella privilegiata condizione di potersi muovere senza nessun problema all’interno degli stati membri. In Italia essi sono la prima comunità straniera e, purtroppo, stando alle statistiche, anche la prima comunità per numero di reati.
Il fatto che il presidente rumeno si sia affrettato a venire in Italia dopo i fatti di Roma a discutere con Prodi i problemi legati alle relazioni tra i due paesi, la dice lunga su come la posta in gioco dal punto di vista economico sia altissima. Se la presenza dei rumeni in Italia ha raggiunto cifre ragguardevoli garantendo attraverso le rimesse degli emigranti entrate sostanziose al bilancio rumeno, va anche tenuto presente che sono oltre ventimila le imprese italiane operanti in Romania. Ci sono, quindi, tutte le premesse per tentare di smorzare sul nascere una pericolosa escalation razzista che sarebbe causa di crescenti disagi per tutti.
Il cammino dell’integrazione è un cammino difficile da percorrere, soprattutto tenendo conto che chi ha vissuto per anni sotto il tallone di Ceaucescu ha sviluppato un senso di rifiuto per le leggi inique che l’opprimevano, e questo ha portato ad una “forma mentis” collettiva che relativizza di molto i principi morali. Tutto ciò non per giustificare chi delinque ma per comprendere che, alla base di tutto, c’è il bisogno immenso di costruire non solo una cortese tolleranza da parte nostra, ma un cammino pedagogico di formazione delle coscienze a cui tutti sono chiamati, in modo particolare il mondo istituzionale.
Alla luce di questi fatti, possiamo dire che la presenza del male nel mondo va contrastata vivendo fino in fondo la logica del Vangelo. È il caso di ricordare che esso si basa sull’amore e non sull’odio, né tantomeno sul rifiuto dell’altro. Ricordarcene in questi tempi può contribuire a costruire una società più consona al rispetto dei diritti dell’uomo, chiunque esso sia.

Mario Bandera (NO)

I RELIGIOSI/2 NON SONO CITTADINI ITALIANI?

Amici di Settimana,
lo scorso 14 ottobre si sono tenute in Italia le elezioni Primarie del nascente Partito Democratico. Senza ombra di dubbio, comunque ci si collochi politicamente, un fatto di rilievo in Italia, perché innovatore particolarmente quanto a modalità di partecipazione. Spira forse aria nuova, in tutti i sensi, e questa nascita che pure appare sofferta e che mostra – dicono i politologi – anche delle imperfezioni, è certamente un fatto che lascia più di un segno positivo per il cammino della maturazione democratica nazionale.
Oggetto di queste poche righe da parte mia, sono frate cappuccino, è la gioia di aver potuto partecipare, e tanti consacrati come me, liberamente e consapevolmente alla vita sociale e politica del mio paese, quale cittadino cristiano, indipendentemente dagli schieramenti partitici che, in un passato ancora recente, venivano spesso visti alla luce di pregiudizi reciproci.
Finalmente ci si muove nell’ottica di quella sana e preziosa laicità nella chiesa e della chiesa incoraggiata dal Vaticano II, raccomandata nel cammino della chiesa italiana dopo-Verona e ribadita ancora recentemente nella 45ª Settimana Sociale a Pisa e Pistoia con la riflessione sul bene comune vissuto in termini di integrazione e non di esclusione.
Anche nei nostri ambienti conventuali ed ecclesiali si respira decisamente aria nuova. Mi ha, quindi, sorpreso quell’attardarsi giornalistico, che si è visto in alcuni telegiornali Rai nazionali, come di una curiosità la partecipazione al voto di religiose ed ecclesiastici. Hanno forse commesso un abuso?
Chi, nella società e nella chiesa, misura gli avvenimenti ancora con il metro di trascorse battaglie elettorali, forse dovrebbe riflettere di più sul cammino che si sta aprendo, anziché disperdersi in sterili azioni di retroguardia. Siamo religiosi cittadini cristiani e non inconsapevoli pedine di una politica mestierante, sovente divenuta questione di bottega, realtà che si praticava nelle sacrestie (eccome!), anche se non lo si diceva!
Auguri e saluti.

fra Luca Isella ofm cap.

venerdì 5 ottobre 2007

AL VESCOVO MONARI CHE PARTE SENZA LASCIARCI

Carissimo vescovo Luciano,
non oso dirti che scrivo a nome della diocesi e dei preti. Se interpreto i sentimenti di altri sono contento, ma non lo pretendo. Ti scrivo come ti ho già scritto nelle grosse occasioni e questa mi sembra la più grossa e la più triste di tutte. Stiamo male come quei fedeli cui viene tolto un parroco amatissimo. Dispiacere e rimpianto, riconoscenza e affetto.
Mentre ci davi lettura in curia del documento ufficiale sul tuo trasferimento a Brescia, la voce a volte si incrinava e lasciava intuire che dentro forse piangevi. Dodici anni a Piacenza ti hanno legato in profondità ai tuoi preti e alla tua gente. Siamo stati la tua famiglia. Ricordo la sera della messa in cattedrale in suffragio di tua sorella – a pochi giorni dal funerale – quando ci hai detto: «Ora quaggiù io non ho più nessuno, né genitori, né fratelli. La mia famiglia siete voi». Non erano parole di circostanza. Ti abbiamo sentito padre e fratello in ogni occasione.
Ti dispiace andare perché sappiamo che con noi ti sei trovato bene e ce lo hai confermato ogni anno nella festa del S. Cuore – in quello che ormai era diventato “il discorso sullo stato della diocesi” –: «con voi mi trovo bene». Non ci hai mai lasciato dormire tranquilli, ci hai spronato a camminare al seguito di Gesù per il bene della diocesi e di tutta la nostra gente. Quanti messaggi forti ci hai trasmesso: di volerci bene, di stimarci a vicenda, di considerarci presbiterio unito a te per fondere in unità tutta la nostra chiesa locale!
Sei stato come un vero parroco per i tuoi preti, interessandoti alla nostra salute e situazione spirituale, alle parrocchie in cui operiamo, con una disponibilità e apertura davvero grandi. I preti malati hanno avuto il conforto delle tue visite assidue e incoraggianti. Quelli che morivano il conforto del funerale sempre personalmente da te presieduto. C’è chi dice che sei troppo buono, che fai fatica a comandare, che non imponi mai la tua volontà. Perché preferisci aspettare risposte docili, anche se talvolta tardano ad arrivare.
I laici ti hanno amato, creduto e seguito, senza particolari fatiche. Perché la tua parola chiara e convincente era accompagnata dalla testimonianza della tua vita. Uno di loro ha detto: «Il vescovo mette i fedeli in condizione di potersi affidare a lui perché è una persona che pratica quello che dice ed è quindi molto credibile».
I poveri: pensiero costante del tuo ministero. Appena arrivato in diocesi, hai voluto che nella tua stessa casa vivessero i poveri della “Casa della Carità”. Basterebbe questo a qualificare come splendido il tuo episcopato tra noi. Come piangeranno alla notizia del tuo trasferimento! E che dire del tuo interessamento per l’istituzione in città dei campi per i nomadi, della tua continua attenzione alla Casa “La Pellegrina” per i malati di aids, dell’appoggio alla Caritas per la “Mensa della Fraternità”, del tuo dedicarti alle istituzioni cittadine rivolte alla cura e all’inserimento lavorativo dei disabili (Assofa, Germoglio…).
Ci mancheranno la “Scuola della Parola”; i tuoi interventi pacati e profondi sui più svariati argomenti nelle diverse circostanze della vita pubblica; il tuo sguardo sereno sulle realtà anche difficili, specialmente la tua capacità di dialogo che non vede mai nell’altro l’avversario ma la persona che cerca il meglio; il tuo profondo spirito di preghiera e di fede che ha dato senso alla tua vita e alle decisioni da prendere.
Che bel ricordo lasci ai bambini ragazzi e giovani che hanno avuto la fortuna di incontrarti nelle parrocchie, nelle scuole, nei campi-scuola o nei raduni diocesani!
Sarà l’eco della tua Parola forte e incisiva e del tuo affetto sincero per ciascuno che manterrà vivo il tuo ricordo. Partirai ma non ci lascerai! Ci hai detto testualmente: «Le relazioni con le persone sono le cose più importanti della vita. I legami non si spezzano». La reciproca preghiera ci garantisce che è così. (don Giancarlo Conte)